Incarnazione digitale
Custodire l’umano nell’infosfera
Il 5 febbraio scorso, il magazine Vita (mensile dedicato al racconto sociale, al volontariato, alla sostenibilità economica e ambientale e, in generale, al mondo non profit) ha dedicato un articolo al libro “Incarnazione digitale" di don Luca Peyron, edito da Elledici. Di seguito la recensione con l’intervista all’autore, a cura di Marco Dotti.
La sfida dell’incarnazione digitale: custodire l’umano nell’infosfera
di Marco Dotti 05 febbraio 2021
La tecnologia non è un semplice mezzo, ma uno strumento performativo: mentre la usiamo ci cambia. Per questo, come ha più volte esortato Papa Francesco, è importante riflettere su ciò che sta a monte, oltre che sulle conseguenze e gli effetti del digitale sulla nostra vita. L’esperienza torinese dell’apostolato digitale
«L’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli; è imprescindibile quindi approfondire la conoscenza delle sue dinamiche e la sua portata dal punto di vista antropologico ed etico», con queste parole Papa Francesco ha chiamato allo sforzo congiunto per disegnare un futuro che tenga conto della trasformazione in cui siamo immersi. Una nuova realtà che, già nei primi anni Settanta, venne definita “infosfera" e oggi riguarda tutti.
Don Luca Peyron studia da anni l’infosfera, tema a cui ha dedicato anche un bel libro (Incarnazione digitale. Custodire l’umano nell’infosfera, Elledici, 2019). Ha un passato da consulente legale in proprietà industriale, è docente di teologia e ha avuto un ruolo di primo piano nella candidatura di Torino come Centro italiano per l’Intelligenza Digitale. Da due anni, Peyron coordina il Servizio per l’Apostolato Digitale dell’Arcidiocesi di Torino che si occupa proprio della connessione tra infosfera, ambiente digitale e fede. Un servizio che suscita interesse crescente. Ne parliamo con lui.
C’è una differenza tra pastorale digitale e apostolato?
C’è una differenza sostanziale tra pastorale digitale e apostolato digitale. Fare un blog religioso, costruire un sito internet per la parrocchia, diffondere via social un bollettino religioso sono un modo di fare pastorale servendosi del digitale. L’apostolato digitale, invece, è un servizio nato all’interno della pastorale universitaria della Diocesi di Torino e ha come senso, significato e obiettivo quello di pensare la trasformazione digitale.
Un nuovo approccio dunque?
Ci siamo posti il problema di pensare la trasformazione ad intra e ad extra di tutto ciò che è digitale – dall’Intelligenza Artificiale alle piattaforme fino alla blockchain – rispetto all’aver fede, rispetto a incontrare Dio, rispetto ad avere un vita ecclesiale. Ad intra, il tema dell’apostolato digitale si interroga dunque su come la trasformazione digitale incide sul fatto credente. Ad extra, ci si interroga su cosa la Chiesa ha da dire rispetto al mondo e alla società nel suo complesso in relazione a questi temi: che tipo di contributo, a partire dalla teologia spirituale fino al Magistero, dal Vangelo all’esperienza delle comunità. la Chiesa può dare per la comprensione di quanto sta accadendo. Partendo, ovviamente, dal presupposto che la trasformazione digitale sta cambiando la società, l’essere umano, le relazioni tra le persone, quelle istituzionali e d’impresa. L’apostolato digitale non si pone, dunque, solo il tema di come annunciare il Vangelo in un mondo che cambia, ma anche di come capire il mondo che cambia.
Come nasce l’apostolato digitale?
Nasce da una provocazione dei padri sinodali durante il Sinodo sui giovani prima e del Santo Padre poi, che hanno insistito sul fatto che la Chiesa si interroghi su questi temi.
Il suo libro ha un sottotitolo avvincente: incarnazione digitale…
Questo libro nasce da un’esperienza personale: mi occupo di questi temi – insegno teologia all’Università Cattolica di Milano, alla Statale di Torino e presso IUSTO – università salesiana sempre di Torino – da tempo e ho cercato di mettere per iscritto quanto insegnavo. L’ho fatto per cominciare a mettere un po’ parola su questi temi, a partire da un concetto di fondo: l’infosfera.
L’infosfera è la globalità delle informazioni che, in qualche modo, ci avvolge e determina sempre di più le nostre posture esistenziali. Incarnazione digitale significa che a partire dal mistero dell’incarnazione di Cristo, in ogni epoca i cristiani si devono interrogare sui segni dei tempi e come, in quel determinato momento della storia, le persone vivono la loro esperienza di vita e di fede. Questo perché nella loro esperienza di vita e di fede, e solo in quella, può maturare l’incontro concreto e reale con Cristo. L’operazione che tentiamo di fare è riflettere su questi temi portando il nostro contributo.
Come lavorate concretamente?
Lavoriamo in équipe, cercando di intercettare soprattutto i giovani. Abbiamo un laboratorio interconfessionale, Rerum Futura, che mette insieme giovani cattolici, ebrei e musulmani per riflettere sul digitale.
L’aspetto della sfida include quello dei rischi, mi riferisco in particolare ai temi antropologici. Dalla trasformazione digitale potrebbero uscire antropologia nuove, inedite, forse incompatibili con la nostra visione del mondo…
Il rischio maggiore che rilevo, per quanto riguarda la Chiesa, sarebbe non accorgersi di quanto sta succedendo e, mi permetto di dire, di quello che è già successo… da tempo. Rischiamo di continuare a annunciare il Vangelo a un essere umano che, semplicemente, non esiste più. Quando Papa Francesco nel 2015, a Firenze, ricordava che il mondo è cambiato… Aveva chiesto agli studenti e alle università di mettersi insieme e provare a riflettere sul cambiamento. A Torino abbiamo rimodulato la Pastorale universitaria, a partire da quel discorso di Papa Francesco.
Il Concilio Vaticano II parla continuamente di «condizione umana». Ecco, la condizione umana sta cambiando. è diventata una condizione digitale e digitalizzata. Dobbiamo riflettere su questo aspetto, partendo anche da una considerazione personale: il grosso rischio che vedo – parlo dei pastori, dei catechisti, degli animatori – è non cogliere una trasformazione in cui siamo immersi. Una trasformazione che ha cambiato anche noi. Continuiamo a ripetere in modo rituale parole, frasi, atteggiamenti… ma quelle parole hanno una risonanza diversa rispetto a pochi anni fa.
Un esempio?
Durante il lockdown abbiamo assistito a una “ligurgodemia”… Un uso massivo di strumenti social non pensata. Ci siamo persi la presenza reale di Cristo in tre mesi… pur di andare su Facebook. Una questione enorme, tant’è che il Papa a Santa Marta ad un certo punto ha detto: fermiamoci e riflettiamo!
C’è stata una “grande abbuffata” di social…
Più che un’abbuffata, è stata la scoperta di un nuovo mondo senza che ci si rendesse conto di come la tecnologia digitale non è uno strumento neutro. La tecnologia è uno strumento performativo: nell’usarla, ci cambia.
Qualcosa, però, sta cambiando?
Credo che questo tempo sia uno straordinario kairos che la Provvidenza ci ha regalato. Lo stordimento rispetto a quello che è successo è globale ed è planetario. Questo significa che, oggi, la Chiesa ha la possibilità di mettere parola su questi temi con una saggezza, una lungimiranza e una capacità progettuale e profetica che difficilmente ritroviamo in altri soggetti istituzionali e non. Negli ultimi duecento anni ci siamo disabituati, ma nei precedenti milleottocento abbiamo passato i nostri giorni a guarda al tempo che verrà e all’umano che verrà. Vorrei andare a San Giovanni Bosco e al suo insegnamento: quando pensò l’oratorio, lo pensò con alcuni pezzi che continuano nell’oggi, tra questi l’aula.
L’aula di catechismo?
No! L’aula era il luogo in cui i giovani venivano invitati a pensare. Questo è il pezzo che, da un lato, un po’ ci manca. Ma è anche il pezzo che, d’altra parte, possiamo oggi mettere a sistema. È il pezzo che la società ci chiede. C’è un vinto pressante: che cosa pensare e come pensare tutto questo.
L’epoca digitale cambia la percezione dello spazio, del tempo e del corpo. Infonde un senso di espansione di sé che sembra non incontrare più limiti e l’omologazione si afferma come criterio prevalente di aggregazione: riconoscere e apprezzare la differenza diventa sempre più difficile
Torino, oggi, è centro italiano per l’Intelligenza Artificiale…
Ed è proprio un’occasione straordinaria di pensiero e di condivisione di pensiero. Quello che la Chiesa ha da dire sull’essere umano da sempre sta suscitando un interesse del tutto nuovo. Dalla Chiesa molti si aspettavano un atteggiamento di tipo moralistico rispetto ad alcune cose, invece il semplice fatto di articolare un pensiero non moralistico, ma che cerca di proporre un’antropologia, una filosofia, una visione economico-politica delle cose… è visto con interesse e stupore.
Come se lo spiega?
Questa visione, ovviamente, si radica nel Vangelo ma per la nostra società non era più considerata quindi risulta spesso nuova. L’effetto che genera, però, è dirompente: ha aperto una nuova capacità e possibilità di dialogo imprevedibili solo pochi anni fa. Con la nostra équipe siamo invitati negli ambiti più disparati per portare il nostro pensiero. C’è una richiesta di pensiero, anzi: del nostro pensiero in tutti gli spazi. Questo non significa occupare nuovi spazi. Significa essere là dove nascono nuovi processi e dove vengono iniziati filoni di ricerca molto importanti. Questo comporta per noi una nuova responsabilità etica e civile.
La sfida sulle tecnologie è complessa…
Come tale può essere affrontata solo in modo sinodale: facendo le cose assieme, pensandole trasversalmente. Teologie e sguardi differenti vanno messi assieme e a sistema. Non farlo, significa sconnettere lo spirito dalle opere.
Dobbiamo passare dalla connessione alla relazione…
Sono convinto che la trasformazione digitale permetta di far diventare globale il locale. Il Concilio ci ha insegnato che bisogna insistere sul locale. Ma il locale, oggi, può diventare globale: la trasformazione digitale ci restituisce la possibiltà di restituire e raccontare la nostra azione, dopo aver lavorato e raccontato il nostro pensiero. La trasformazione digitale riconnette pensiero e azione e ci permette, così, di intervenire fattivamente nelle cose del mondo. Senza lasciare che ci travolgano.
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