11 SETTEMBRE
24ª DOMENICA T.O.
UNA GIUSTIZIA CHE SALVA
Non c’è niente di più scomodo per gli uomini che Dio. E fra gli uomini non fanno eccezione i credenti. Perché se si afferma l’esistenza di Dio, subito ne viene la necessità di porsi davanti a Lui. E nelle relazioni nulla è più difficile che rapportarsi a qualcuno che sempre sfugge, a una trascendenza inafferrabile. Da qui la grande tentazione del credente: addomesticare Dio per rendere gestibile la relazione con Lui. È la tentazione dell’idolo e dell’idolatria.
Il vitello d’oro prototipo di ogni idolo
L’episodio del vitello d’oro narrato dal libro dell’Esodo (cf prima lettura) è il prototipo di ogni idolatria. Gli Israeliti, privi della guida di Mosè e abbandonati alla loro fragilità, all’incapacità di reggere l’austerità del deserto, immagine di quella spirituale, si plasmano un vitello d’oro. Un’immagine di Dio, un manufatto che possono vedere, toccare, portarsi appresso, gestire secondo i propri bisogni. Questo è l’idolo.
Ad esso offrono il loro culto. Di fronte all’idolo fanno la loro professione di fede (cf Es 32,8). Ironicamente il testo dell’Esodo fa proferire al popolo parole nelle quali riconoscono i benefici ricevuti, la misericordia di cui sono stati graziati, ma la attribuiscono a un autore errato. Non all’artefice, ma a un artefatto.
Dalla giustizia giustiziante alla giustizia giustificatrice
Ogni forma di idolatria nasce dal bisogno di manipolare Dio e di renderlo dimensionabile alla propria misura. Per questo anche Gesù è scomodo e anche il Dio che annuncia è fastidioso.
Gesù è a mensa. A lui si avvicinarono «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (Lc 15,1). Accondiscendenza alla comunione irritante per chi è più concentrato sulla condanna che sulla misericordia. Perciò farisei e scribi «mormoravano», perché incapaci di comprendere un Dio eccedente le loro rappresentazioni. Essi sono così fermi nella presunzione di essere giusti che non possono accettare l’accoglienza degli ingiusti. Anche per scribi e farisei, come per Gesù, Dio è giusto e fa giustizia. Ma il Dio di Gesù fa giustizia giustificando, cioè rendendo giusti; il Dio degli scribi e dei farisei fa giustizia giustiziando. Per loro l’unica giustizia è quella retributiva.
Le parabole della misericordia
Gesù narra tre parabole (cf Lc 15,4-32). Tre vicende diverse, ma accomunate da alcune parole. Qualcuno perde qualcosa che per lui ha sommo valore; allora cerca quanto ha perduto; infine lo ritrova; e pertanto gioisce e invita a gioire insieme con lui.
L’esempio della figura di credente idolatra è il figlio maggiore della terza parabola. Incapace di gioire con il padre per il ritorno del fratello si rinchiude in un capriccioso e ostile auto-esilio. All’invito del padre che esce a supplicarlo – si noti bene –, egli risponde con una frase a un tempo durissima e rivelatrice (cf Lc 15,29). È stato osservante nel suo mercimonio di obbedienza contro ricompensa, ma non è mai stato intimo con il padre. È stato a casa, ma non di casa né in casa. Per la sua estraneità non ha mai vissuto alcuna relazione con il padre, non può certo averne con il fratello. Chi non ha padre ma solo un retribuitore, un dispensatore di premi e punizioni, non può avere fratelli.
È qui, in fondo, la scomodità del Dio di Gesù. È imprevedibile e ingestibile per la mentalità retributiva. È scomodo perché la sua vita e la sua predicazione pongono tutti su uno stesso piano: tutti sono peccatori. E tale evidenza non fa piacere a nessuno.
Eppure è l’unica vera base di partenza per il cammino di conversione che porta alla gioia. Solo chi è consapevole del proprio peccato può sperimentare la misericordia che gli viene elargita, non per merito ma per grazia.
È l’esperienza attestata dalle parole di san Paolo. Egli può riflettere sul proprio passato giudicandolo segnato dal peccato (cf 1 Tm 1,13). Eppure lì, nella sua situazione, è stato raggiunto da una misericordia più forte del suo peccato (cf 1 Tm 1,14). Paolo si sente addirittura esempio nella realizzazione della dialettica peccato misericordia. Per questo all’inizio e alla fine di questo passo può aprirsi alla lode.
Nessuna disperazione dunque per il proprio peccato. A condizione però che si sappia dire con Paolo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1 Tm 1,15).