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3. Commento alle Letture – 18ª DOMENICA T.O.

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18ª DOMENICA T.O.

NECESSARIO ED ESSENZIALE

Interpellato da uno della folla (cf Lc 12,13), Gesù rifiuta di assumere il ruolo del giudice. Da questo diniego, però, si capisce la consapevolezza che Gesù ha di sé e dell’orizzonte in cui colloca il proprio insegnamento.
La prospettiva  è sapienziale e rivolta alle realtà celesti. Una vera rivoluzione copernicana, un ribaltamento di prospettiva che dà senso a tutti i fenomeni e anche alle anomalie che nella precedente prospettiva non trovavano spiegazione.
Gesù pone il Regno dei Cieli al centro e tutto il resto in relazione a esso. Non è una svalutazione della storia dell’uomo con tutte le sue dimensioni. Tutti  gli aspetti della vita dell’uomo sono riconosciuti ma riconsiderati alla luce del Regno.

Il pericolo della ricchezza

Nella parabola lucana il protagonista  è un uomo generico, senza nome, senza volto: chiunque. È un uomo ricco, che onestamente si guadagna la propria ricchezza. È un uomo previdente. Non scialacqua i propri beni in una vita dissoluta, ma saggiamente provvede al proprio futuro. Questo però è il punto cruciale: egli fonda le proprie speranze di futuro sui suoi beni. Si eternizza nei propri beni. La questione è qui. Un comportamento umanamente saggio è, di fatto, ancora miope: riscontro della miopia è la morte.
Tutti sappiamo che il tema della morte è l’argomento  tabù della nostra cultura. Di tutto si può parlare, ed anche straparlare, tranne che della morte.
Al cospetto della morte si possono assumere tre atteggiamenti. Il primo consiste nel considerare la vita come un continuo apprestarsi alla morte, come avviene in molte tradizioni filosofiche e in quelle religiose. C’è il rischio, però, di eccedere e di svalutare la vita a favore della morte.
Il secondo consiste nel coltivare una mistica della morte. Fu parte della cultura europea della prima metà del Novecento, i cui effetti si sono visti nella seconda guerra mondiale e, oggi, nel terrorismo suicida.
Infine la terza possibilità: considerare la morte come un evento che verifica l’autenticità della vita intera. Qui la morte è considerata come il punto di riscontro della validità della vita vissuta e dei valori per cui ci si è spesi. In questo senso la morte restituisce alla vita tutta la sua serietà, e la vita diventa preparazione alla morte nella ricerca dell’autenticità.
Alla luce di questo terzo atteggiamento si può collocare, non moralisticamente, il discorso sulla ricchezza. Ciò che nella parabola è denunciato della ricchezza,  e per estensione di tutte le realtà mondane,  è la loro vischiosità, la loro potenzialità seduttiva, capace di ridurre l’orizzonte dell’esistenza umana alla sola esperienza terrena, senza rimando a un ulteriore che, invece, è il suo orizzonte più vero (cf Lc 12,15).

Ricchezza, idolatria, vita nuova

Questa è la rivoluzione copernicana operata da Gesù: la centralità del Regno dà la misura e il valore a tutte le realtà mondane e a tutte le dimensioni della vita. Non squalifica nulla dell’umano esistere, bensì tutto pone nell’orizzonte del Regno. Il valore dei beni terreni sta nella loro relatività. Il vero rischio è di assolutizzarli fondando su di essi la propria sicurezza. In altri termini il rischio è di idolatrarli.
San Paolo stesso parla della cupidigia come di «idolatria» (cf Col 3,5). Ma prima di giungere alle indicazioni morali, Paolo parte da una considerazione teologica: «se siete risorti con Cristo»  (Col 3,1). Questa è la nuova dignità del cristiano, effetto della risurrezione di Cristo e del sacramento del battesimo.
È una dignità che ha effetti concreti, una nuova prospettiva di vita (cf Col 3,2). La nuova dignità data dal battesimo trasforma la vita del credente in una realtà totalmente nuova. Un’esistenza che già nell’oggi si lascia informare dalla prospettiva del futuro, non per svalutare il presente ma per qualificarlo e sostanziarlo  (cf Col 3,9-10). In questa prospettiva positiva si può cogliere il senso della conclusione del vangelo (cf Lc 12,21). Non minaccia, ma esortazione all’autenticità.