28 febbraio
2ª DOMENICA DI QUARESIMA B
«Questi è il Figlio mio, ascoltatelo!»
PER RIFLETTERE E MEDITARE
La trasfigurazione è uno degli episodi speciali e più attraenti della vita di Gesù e ha ispirato da sempre la fede dei cristiani. Lo si trova nei tre vangeli sinottici, ma anche in Pietro, che dice: «Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,17-18).
I tre testimoni
Marco, che pure scrive il Vangelo più breve, dà sulla trasfigurazione molti particolari. Dice che le vesti erano splendenti, bianchissime («Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche»). E riferisce le parole di Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». E aggiunge: «Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro appare il più coinvolto, ma più che spaventato è preso interamente da quell’esperienza che sa di straordinario e vorrebbe prolungarla. La sua reazione potrebbe rifarsi anche all’idea trionfalistica del messia, vedere in questo momento solenne finalmente l’occasione per superare una concezione riduttiva del regno di Dio. Confermarsi nella bontà della sua scelta di mettersi al seguito di un maestro che non cessava di spegnere gli animi di chi era sempre in attesa di qualcosa di straordinario.
Il Padre ripete sostanzialmente le parole dette al momento del battesimo di Gesù: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Ma alla fine non rimane che Gesù nella sua semplicità di uomo: «Improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro». Quasi a sottolineare che la trasfigurazione è una parentesi, e che la vita dei discepoli di Gesù deve continuare, e seguire le orme di questo maestro normale.
La fede di Abramo messa alla prova
L’episodio di Abramo della prima lettura è drammatico e conosciuto. Abramo appare anche in quest’occasione l’uomo fedele a Dio fino in fondo, senza resistenze, disponibile addirittura a sacrificare Isacco, il figlio della promessa.
Inutile domandarsi come sia stato possibile da parte di Dio chiedere ad Abramo questo gesto assurdo, quello di sacrificare il proprio figlio. È una domanda che ci facciamo tutti, dopo aver letto questo racconto straziante. In realtà questo testo fa parte del linguaggio biblico-simbolico. Abramo sembrerebbe voler offrire a Dio quello che gli era più caro in un tempo in cui i sacrifici umani erano normali, ma con questo tragico episodio Jahvè affermava la propria riprovazione per queste barbarie. Gli israeliti abbandoneranno presto i sacrifici umani, mentre presso altri popoli continuarono ancora a lungo.
Ma non possiamo dimenticare che ciò che non ha subìto Isacco, lo subirà Gesù. È questa la tradizione ecclesiale, che vede realizzarsi puntualmente nella passione e morte di Gesù quel sacrificio che ad Abramo è stato impedito di consumare. La voce che ha fermato il braccio di Abramo non ha fermato i Romani che mettevano in croce il Figlio di Dio. Lo sottolinea anche Paolo nella seconda lettura: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32).
Tutto il racconto della trasfigurazione ha infatti sullo sfondo la croce. La logica di Dio è diversa dalla logica degli uomini e la gloria passa attraverso il sacrifico. Così è stato per Gesù, così è anche per noi. Senza croce, cioè senza impegnare la vita in obbedienza a Dio, non ci sarà trasfigurazione-risurrezione.
Incontrare il volto luminoso di Dio
Tornando al coinvolgimento di Pietro, Giacomo e Giovanni in estasi davanti alla bellezza della trasfigurazione di Gesù, c’è da dire che anche nella nostra vita, pur carica del peso dell’oscurità e della sofferenza, non mancano squarci di trasfigurazioni e di bellezza, nei quali Dio lo si incontra davvero, lo si sente a un passo da noi, se ne fa esperienza viva, immediata.
Questi momenti di esperienza forte di Dio non sono un’illusione, dal momento che sono testimoniati praticamente da tutti i veri credenti. Diventano possibili soprattutto nei momenti di preghiera vera come per Gesù: «Gesù… salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-29). Dio non si sperimenta nel trambusto, nel caos, nell’agitazione delle attività. Bisogna in qualche modo conquistarsi degli spazi in cui si possa fare silenzio, per entrare in noi stessi. «Volete conoscere Dio? Mettetevi in ginocchio» (Fulton Sheen).
Un parroco torinese, don Paolo Gariglio, promotore di molte iniziative pastorali, ha voluto invitare nel teatro della sua parrocchia tutti coloro che pensavano di aver incontrato Dio. Si sono ritrovati in trecento in un teatro gremito e molti hanno potuto raccontare la loro storia singolarissima, il loro incontro personale con Dio.
«Dio si fa conoscere a coloro che lo cercano», dice Pascal. Ciò che noi dovremmo fare è creare le condizioni perché questa esperienza diventi possibile.
Dio si presenta a noi non tanto per un ragionamento intellettuale, ma attraverso un’esperienza vitale, un’intuizione di fondo irresistibile, che riconosce l’armonia dell’universo e che va oltre i dubbi e le brutture del mondo.
UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA
«Dio nel suo amore, nella sua bontà verso gli uomini, nella sua potenza è giunto fino a concedere a coloro che lo amano il privilegio di vederlo. L’uomo con le sue sole forze non potrà mai vedere Dio. Ma se Dio lo vuole, può farsi vedere da chi vuole, quando vuole e come vuole. Come coloro che vedono la luce, sono nella luce e partecipano al suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio e partecipano al suo splendore. Lo splendore di Dio dona la vita: coloro che vedono Dio ricevono dunque la vita» (sant’Ireneo).