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3. Annunciare la Parola – 25 aprile 2021

25 aprile

4ª DOMENICA DI PASQUA

(Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni)

Io sono il Buon Pastore

PER RIFLETTERE E MEDITARE

Gesù si dichiara buon pastore e così facendo rivela se stesso nella sua identità messianica. È lui il messia lungamente atteso. Ezechiele, proprio mentre accusa i cattivi pastori, esorta il suo popolo a mettersi in attesa di questo buon pastore: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà…», dice il Signore: «Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore». E prima ancora: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita» (Ez 34,11.15-16). Esattamente ciò che Gesù dice di se stesso.

Gesù, buon pastore
Quando Gesù evangelizza, e in modo speciale quando parla di se stesso, molto spesso ricorre a esempi tratti dalla vita. Dice: «Io sono la porta» (Gv 10,7); «Io sono la vite» (Gv 15,1); «Io sono il pane…» (Gv 6,35); «Io sono la strada…» (Gv 14,6). Al capitolo 10 di Giovanni si presenta come «pastore»: «Io sono il buon pastore…», dice Gesù.
L’aggettivo greco che accompagna il sostantivo pastore è kalòs (bello) e significa in questo caso: bravo, accorto, zelante, perfetto, in contrapposizione al pastore mercenario, che non si cura delle pecore e che di fronte al pericolo si dà alla fuga. Perché «è mercenario e non gl’importa nulla delle pecore» (Gv 10,13).
L’immagine del buon pastore è stata sempre molto presente nella Chiesa, in ogni tempo, sin dalle origini. La Chiesa dei primi secoli ha presentato Gesù così, come un giovane pastore che tiene sulle spalle una pecora.
Il buon pastore – così come il pastore mercenario – erano figure ben note in Israele. Il profeta Ezechiele ne parla in termini espliciti, dando la voce a Dio: «Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge» (34,2-6).
Queste espressioni sono confermate dallo stesso Gesù, che in modo esplicito, proprio nei versetti che precedono il brano di Vangelo che viene proposto oggi, denuncia e accusa i falsi pastori d’Israele: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati…» (Gv 10,7-9). Questi falsi pastori non conoscono le pecore e non le amano, le tengono sottomesse, non sono al loro servizio, ma impongono su di loro dei pesi che loro non toccano nemmeno con un dito.

Io amo le pecore e do la mia vita per loro
Gesù ripete un paio di volte in questo brano di Vangelo l’espressione le «mie» pecore. È evidente che la frequentazione quotidiana con questi animali miti generava sempre un rapporto intimo con ciascuno di loro. I pastori le chiamavano per nome ed essi venivano riconosciuti dalla voce o da un fischio.
Dice poi Gesù di avere un rapporto speciale con le sue pecore, di avere verso di loro un atteggiamento di conoscenza reciproca, intima, amichevole. Non si tratta quindi di animali, perché con loro si può avere solo un rapporto di tipo istintivo e vitale, non personale. «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre», dice Gesù. E non parla di una conoscenza puramente intellettuale, ma di predilezione, di tenerezza reciproca, della stessa relazione intima di amore che c’è tra lui e il Padre.
Gesù inoltre, uscendo ancora dalla similitudine e riferendosi ai suoi progetti missionari di evangelizzazione universale, afferma di avere un amore che si estende anche ad «altre» pecore, che per ora non fanno ancora parte del suo ovile: «Ascolteranno la mia voce», dice Gesù, «e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16).
Gesù afferma infine, riferendosi al mistero della sua passione, morte e risurrezione, di essere pronto a dare addirittura la vita per le sue pecore, ma anche di avere il potere di riprenderla di nuovo: «Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18).

Preghiamo per le vocazioni
Gli apostoli, seppure a fatica, hanno imparato a identificarsi con Gesù buon pastore, soprattutto dopo la risurrezione e la Pentecoste. Essi si sono messi a servizio del gregge, cioè della nuova comunità che stava nascendo, la Chiesa. Pietro, Paolo e gli altri non c’è dubbio che sono stati dei veri pastori dediti alla loro missione tra il popolo, pastori umili e zelanti, entusiasti, seminatori di libertà, senza fermarsi di fronte alle difficoltà, nemmeno delle prove più terribili e della stessa morte.
Ed è questa la funzione di ogni pastore nella comunità. Per questo oggi la Chiesa dedica la domenica alla preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose.
Ogni anno le chiese locali ordinano alcuni nuovi sacerdoti, ma il numero è sempre più insufficiente. In molte zone, quando un parroco si ritira per motivi di età, difficilmente si trova chi lo possa sostituire. Preghiamo perché ci siano dei giovani che sentano il desiderio di mettersi totalmente nelle mani di Dio, a servizio della Chiesa 24 ore su 24.
Certo la crisi delle vocazioni sacerdotali spingerà i laici a scoprire sempre meglio il protagonismo della vocazione cristiana, a responsabilizzarsi e a impegnarsi in prima persona nella propria comunità, permettendo al prete di occuparsi meno di cose che non sono strettamente legate al suo ministero. Senza dimenticare tuttavia che sono i preti a garantire oggi e domani i sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, che accompagnano necessariamente la vita dei credenti. Una piena evangelizzazione dovrebbe poter contare sempre sui vescovi, i preti e i diaconi.

UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA

Don Nino, un sacerdote della diocesi di Torino, raccontava che quando era ragazzo aveva detto a suo padre, socialista convinto e radicale, che voleva entrare in seminario per farsi prete. Il padre, facendo a modo suo un ragionamento profondamente teologico aveva detto: «Ecco i frutti dei rosari di nonna Nina!».