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3. Annunciare la Parola – 21novembre 2021

21 novembre

34ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Gesù Cristo re dell’universo

Proclamiamo la regalità di Cristo

PER RIFLETTERE E MEDITARE

La festa di Cristo Re è stata voluta da Pio XI nel 1925, mentre l’Europa si trovava sotto terribili dittature. Con questa decisione forse il Papa intendeva ridimensionare il potere dei sovrani di questo mondo, per renderli consapevoli che avrebbero dovuto rendere conto delle loro scelte al vero Sovrano dell’universo. Certo, il clima oggi è profondamente cambiato rispetto al 1925, ma Gesù continua ancora oggi a proporre il suo modello di vita perché i rapporti tra le nazioni e tra le persone siano segnati da rispetto e fraternità.

Regalità di Gesù
Sin dalle tentazioni nel deserto Gesù rifiuta sistematicamente potere, gloria e onori. C’è un’occasione in cui la folla vuole proclamarlo re, dopo quella moltiplicazione dei pani e dei pesci che ha impressionato migliaia di persone. Ė stato un momento trionfale e Gesù si è rivelato a loro con una chiarezza sorprendente, chiedendo di essere accolto nella sua vera identità. Ma la gente non capisce. Cerca un re terreno, che garantisca a loro il pane.
Gesù si ritira in preghiera. Gli stessi apostoli, che hanno subìto il suo fascino, si stupiscono di questo suo modo di comportarsi e lo verrebbero diverso. Gli dicono: «Tutti ti cercano…» (Mc 1,37). Ma Gesù li invita ad andare altrove, a costruire altrove il suo regno.
Gesù rifiuta di essere chiamato re, ma per ben 35 volte nel Nuovo Testamento viene detto «re» e altre dodici volte figlio di Davide. Già prima che nasca, l’angelo dice a Maria: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,28-33).

 Gesù davanti a Pilato
Solo davanti a Pilato Gesù non nega la sua regalità. Al governatore che gli dice: «Dunque tu sei re?», Gesù risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo». Ma aggiunge: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36-37). Gesù afferma la propria regalità nel momento in cui è più indifeso. Dopo che i soldati lo hanno arrestato e legato, dopo che Anna e Caifa lo hanno già fatto fustigare e Erode lo ha deriso come un re da burla e i soldati di Pilato lo hanno umiliato e maltrattato. Eppure Pilato prende sul serio le parole di Gesù e sembra convinto della sua innocenza. Il dialogo tra Gesù e Pilato è costruito con grande abilità narrativa, quasi cinematografica. Pilato rappresenta il potere romano e non ha simpatia per gli ebrei. Capisce che c’è sotto un pretesto per condannare Gesù e farebbe volentieri un dispetto alle autorità che glielo hanno consegnato. E sulla croce farà mettere in tre lingue (ebraico, latino e greco), la motivazione della condanna, che proclama la regalità di Gesù, senza cedere alla richiesta di cambiarla: «Quel che ho scritto, ho scritto».

Discepoli di Cristo re
Negli anni della proclamazione della festa di Cristo Re, i giovani di Azione Cattolica hanno cominciato a salutarsi con l’espressione «Cristo regni!» e a ogni manifestazione di massa si sentiva il canto «Noi vogliam Dio che è nostro Padre, noi vogliam Dio che è nostro Re!». E con questo saluto si sentivano alla difesa della Chiesa e del Papa, testimoniando apertamente la loro fede.  Ma che significa per noi oggi affermare che Cristo è nostro re? Che vuol dire mettersi al seguito di un re così diverso da chi governa questo mondo?
Non certo rifacendoci ai tanti sovrani della storia, dai reali d’Italia a quelli d’Inghilterra, di Spagna e di ogni altra nazione, nel passato e nel presente. Pensando a loro non possiamo che sorridere. Ci hanno mostrata spesso un’umanità debole e ferita, vivendo nella sfacciataggine del lusso, in scelte di vita lontane da quelle del popolo.
ùLa regalità di Gesù invece si è espressa al contrario, abbassandosi fino a lavare i piedi ai suoi apostoli. Si è rivelata nel comandamento dell’amore: «Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per me», dirà san Paolo (Gal 2,20).
Ha vissuto la sua regalità nella sovrana libertà di fronte agli uomini e alle cose, non lasciandosi mai comprare o sottomettere da nessun potere. Non ha amato la violenza, non ha fatto dei suoi seguaci dei soldati. A Pietro che pare disposto a tutto quando vengono a prendere Gesù nel Getsemani, dice di riporre la spada. Imitarlo oggi nella libertà vuol dire custodire la nostra persona per le cose che contano, costruire come lui rapporti improntati unicamente sulla verità.
Più che alla sua regalità, Gesù ha pensato alla costruzione del regno di Dio. Un regno che è già presente tra noi come un seme ed è destinato a crescere. Grazie al nostro impegno e allo sforzo di tutti, potrà eliminare le disuguaglianze, la povertà, la fame, le ingiustizie, le malattie. Questo vuol dire concretamente assumere (o riassumere) oggi ruoli di appartenenza, di comunione e di servizio all’interno della nostra comunità, chiamata a essere visibilmente il regno di Dio. Chiesa chiamata continuamente a purificarsi, perché «La Chiesa non nacque principato, ma per essere – contro il principe del mondo – universale rivoluzione» (Gilbert Keith Chesterton).

UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA

Scrive Carlo Carretto: «Cercavamo un Dio potente, un Dio che ci risolvesse i problemi, un Dio che eliminasse i cattivi, che vincesse i nemici in modo visibile a tutti. E invece? Apparve come un bambino. Si realizzò come un povero operaio, non si servì del divino per trovare il pane. Non si alleò coi potenti per dominare i popoli. Non si buttò giù dal tempio per fare i miracoli inopportuni che noi attendevamo per aumentare le nostre sicurezze. Quando venne la prova non scappò. E non si fece nemmeno aiutare dai suoi angeli. Come uomo, uomo vero, uomo uomo, accettò il processo, accettò la condanna, prese la croce sulle spalle, marciò piangendo verso il luogo dei cranio dove stava per essere crocifisso».