24 L U G L I O
17ª DOMENICA T.O.
PREGARE A IMITAZIONE DI CRISTO
Come le tessere di un mosaico, disposte pazientemente una a una, tutte insieme formano la figura che l’artista vuole rappresentare, così in queste ultime quattro domeniche, passo dopo passo, Luca illustra i temi con i quali delinea la figura del discepolo. Il discepolo si mette alla sequela di Gesù secondo le esigenze da lui enunciate, opera la misericordia, ascolta la Parola, prega.
Gesù in preghiera: la relazione con il Padre
Luca presenta spesso Gesù in preghiera. La considerazione dei passi relativi la preghiera di Gesù nel vangelo di Luca porta a riconoscere nel suo pregare l’espressione e la visibilità della sua relazione con il Padre.
Perciò i discepoli, vedendo Gesù in preghiera, si rivolgono al maestro chiedendogli: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). È la stessa preghiera di Gesù l’occasione e il contesto della domanda dei discepoli e dell’insegnamento del maestro.
La relazione con il Padre è il punto decisivo del discorso, non le parole con cui pregare che di tale relazione sono solo espressione. Altrimenti si ridurrebbe l’esperienza della preghiera a questione di formule e di tecniche.
La preghiera del cristiano ha nella relazione di Cristo con il Padre il suo modello e il suo ambiente. Ogni volta che un cristiano prega entra nella stessa relazione di Cristo con il Padre. Solo così il suo pregare è vera preghiera.
Il cristiano prega se e in quanto prega «in Cristo, per Cristo e con Cristo», per dirla con la formula liturgica. Tutto ciò che non si colloca in questo ambito è vaniloquio, ostentazione di sé, esercizio di narcisismo spirituale, ricerca di gratificazione estetica o emotiva, anche quando si ammanta di formule pie.
Pregare da figli nel Figlio
La preghiera cristiana è vera se è inserita in quella di Cristo perché, come insegna san Paolo nella seconda lettura, tutta la vita del cristiano per mezzo del battesimo è inserita in quella di Cristo (cf Col 2,12). In virtù della nuova identità donata dal battesimo anche la preghiera, come il resto dell’esistenza cristiana, viene assunta nella relazione che esiste fra il Padre e il Figlio. Non a caso, quando Gesù insegna a pregare, insegna a rivolgersi a Dio chiamandolo «Padre». È riduttivo interpretare quest’appellativo secondo la linea psicologico-emotiva, cioè come «paparino», «papà» o simili, pur essendo possibili e corrette traduzioni. Il punto qualificante non è nell’analogia con l’esperienza umana, che peraltro, sappiamo bene, può essere, come tutte le esperienze umane, tutt’altro che positiva. Ciò che si dice con la parola «Padre» è che,
«in Cristo, con Cristo e per Cristo», al discepolo è data la stessa opportunità di relazione d’intimità e fiducia che ebbe Gesù con il Padre.
La preghiera di Abramo
L’episodio di Abramo è illuminante. Il patriarca può mercanteggiare con Dio perché con lui ha un rapporto interpersonale d’intimità, tanto che Dio stesso gli rivela i propri propositi. Abramo può condurre un dialogo ardito con Dio perché ha confidenza con lui; può sfidare Dio in merito alla sua giustizia (Gn 18,23) perché ha con lui una relazione confidente, fino a giungere a interrogare Dio su uno dei problemi maggiori della nostra esistenza di credenti: la sua giustizia.
Perseveranza e umiltà
Il discorso di Gesù sulla preghiera termina esortando alla preghiera perseverante, conseguenza della fiducia che la richiesta venga ascoltata, e promettendo il sovvenire di Dio alla preghiera del credente con l’elargizione del dono dello Spirito Santo. È lo Spirito il protagonista della nuova relazione fra il credente e Dio.
Precondizione di questo perseverante chiedere ed essenziale elargire è la capacità dell’uomo di riconoscere il proprio bisogno (cf Lc 11,9). Il chiedere, nella preghiera, è un atto di umiltà, è il riconoscimento della propria fragilità creaturale.
A quest’atteggiamento si può collegare l’ultima fra le richieste del Padre Nostro: «non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11,4). È l’invocazione del credente che sa quanto sia faticosa la fedeltà al Vangelo e la perseveranza nella prova. È soprattutto in queste occasioni che più fortemente bisogna invocare «non abbandonarci alla tentazione», animati dalla fiducia che la nostra richiesta, umile ammissione di debolezza, sarà ascoltata.