Tratto da LECTIO DIVINA, A. Cilia – Elledici 2010
Una premessa
La prima domanda che il lettore si pone davanti a questo brano liturgico è questa: che cosa significa essere beati? La risposta va cercata all’interno della Bibbia. Nell’AT l’uomo biblico trova impossibile giungere alla felicità senza un intervento significativo di Dio: solo lui può rendere felice l’uomo. D’altra parte l’uomo biblico può essere beato/felice secondo un’unica modalità espressiva: è felice/beato chi conduce una vita integra perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio e non li trasgredisce. La mente corre subito al Salmo 1,1-2: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non indugia sulla via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti; ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte». Inoltre è beato/felice chi cerca la sapienza, una sapienza che è basata sulla giustizia divina rivelata nella Torah. Un esempio di questa ricerca sapienziale della felicità è Siracide 14,20: «Beato l’uomo che si dedica alla sapienza e riflette con la sua intelligenza, che medita nel cuore le sue vie e con la mente ne penetra i segreti». Tutti questi esempi considerano la beatitudine nella prospettiva di una prosperità e di un successo terreno. Nella letteratura apocalittica biblica sono detti beati coloro che si trovano in condizione di difficoltà o duro sfavore, la cui felicità è proiettata nella dimensione escatologica. Tre beatitudini che orientano l’ingresso nel Regno di Dio: Beati i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore Queste tre beatitudini non offrono i requisiti d’ingresso al regno dei cieli, ma suggeriscono degli orientamenti per accedervi. La comunione con Dio costituisce il punto di raccordo tra la povertà di spirito e le tre beatitudini di chi ha fame e sete della giustizia, dei misericordiosi e dei puri di cuore. La povertà di spirito è la disposizione interiore che ci fa entrare in rapporto con Dio; la fame e la sete di giustizia e l’impegno per la pace garantiscono di rimanere a contatto con Lui; la purezza di cuore, invece, porta questa relazione al pieno compimento.
La beatitudine della giustizia
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Coloro che hanno fame e sete della giustizia sono tali senza interruzione temporale. In Matteo, a differenza di Luca, siamo di fronte a una lettura spirituale di tali espressioni ma che non escludono la concretezza del discorso: «se la fame fisica è il risultato dell’ingiustizia sociale… fame e sete per la giustizia sono l’inizio del cammino per uscire da tale situazione». Un grande esegeta cattolico ha giustamente notato che l’intero Discorso della montagna è un programma di giustizia nuova (J. Dupont, Le Beatitudini, I, p. 316). Avere fame e sete della giustizia comporta delle scelte comportamentali conformi alle esigenze di Dio. La considerazione di tali aventi fame e sete rimanda a una riflessione semplicemente umana: le condizioni sociali prodotte dall’ingiustizia possono essere superate solo attraverso la personale fame e sete di giustizia da parte di ciascun individuo. Nella beatitudine di Matteo non si fa distinzione tra l’obiettivo della giustizia personale e quello della giustizia sociale. Entrambi sono considerati insieme e nessuno dei due può sussistere senza l’altro. Coloro che fanno della ricerca della giustizia il senso della loro vita troveranno piena realizzazione in un futuro che li proietta nel Regno di Dio: la giustizia appare qui come «pre-condizione» per entrare in esso. L’espressione «saranno saziati» suppone che la «sazietà» necessita della «fame» e della «sete», ma il suo punto di arrivo è al di là della dimensione terrena della vita. Infatti essere veri figli di Dio significa vivere secondo gratuità e misericordia, quindi trovare in Dio solo il compimento di ogni desiderio e aspirazione.
La beatitudine della misericordia
«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). È una beatitudine che pone attenzione alle nostre scelte morali nei confronti degli altri e quindi i rapporti orizzontali con gli uomini. Chi sono gli operatori di misericordia? Per capirlo è necessaria qualche osservazione etimologica e lessicale. Il termine «misericordioso» oltre al nostro testo di Mt 5,7 ricorre in un brano dedicato alla solidarietà redentrice di Cristo con gli uomini, Eb 2,17: il sacerdozio di Gesù è presentato come un atto misericordioso nei confronti degli individui e un gesto fondamentale di fedeltà a Dio, da parte di Gesù per avergli affidato gli uomini con il compito di annientare l’effetto mortifero del peccato in loro. Dio, attraverso una vertiginosa solidarietà esercitata da Gesù verso i peccatori, può rivelarsi come il Dio dell’alleanza e portare soccorso a coloro che sono colpiti da calamità di ogni tipo nel corso della loro vita. Il significato del termine «misericordioso», presenta anche grande pregnanza nella cultura greca, contemporanea ai vangeli: esprime il sentimento che porta a commuoversi dinanzi alle sofferenze degli altri e, in qualche modo, spinge a condividerle. È una forma elevata di compassione. In alcuni ambienti filosofici greci è considerata come uno stato d’animo che esprime debolezza etica e scarsa educazione alla fortezza interiore. Una visione diversa è presente nel Salterio. L’orante del Salmo 5,8 ritiene la «misericordia» un amore di benevolenza che sperimenta da parte di Dio: l’uomo può entrare nel tempio pieno di fiducia e lì sperimentare la bontà di Dio, che è la definizione stessa della sua fisionomia (Es 34,6: «Il Signore passò davanti a lui, proclamando: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà»). Anche nel Salmo 136, considerato nella sua globalità, l’orante può fare appello a questa qualità ineguagliabile di Dio: invitarlo ad agire esclusivamente per la sua bontà. Qual è il filo rosso che attraversa tutto il Salmo 136? L’amore di Dio è eterno perché anima il suo agire in ogni tempo. La Bibbia ci mostra che l’amore di Dio precede l’uomo; è un amore fedele, costante, non occasionale; si rivela nella storia concreta degli uomini. Anche la tradizione rabbinica presenta un’interpretazione del termine «misericordioso» altrettanto eloquente: «per tutto il tempo in cui tu sei misericordioso verso delle creature, il cielo sarà misericordioso verso di te; se tu non sei misericordioso verso le creature, il cielo non lo è verso di te» (Midrash Sifré sul Deuteronomio, 96). Alla luce di queste considerazioni «i misericordiosi» della beatitudine di Mt 5,7 risultano essere quelle persone che sono intimamente sensibili alle miserie e alle difficoltà degli altri, tanto da aprire loro il proprio cuore. I misericordiosi sono, quindi, persone propositive di perdono e di benevolenza. Un significato ancora più concreto di questo atteggiamento lo si può trovare nella parabola dei due debitori (cf Mt 18,23-35): il perdono proposto alla primitiva comunità cristiana deve essere totale e durevole.
La beatitudine della purezza di cuore
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». La base iniziale del significato del termine «puro» può essere: senza mescolanza, senza macchia. Nella mentalità giudaica al tempo di Gesù la purezza era intesa come assenza di una contaminazione causata da contatti con elementi diversi da sé. Nel Pentateuco e nei libri storici (1-2 Sam sino a 1-2 Re) prevale un’idea essenzialmente rituale: l’essere mondo o immondo di persone, animali o cose è in funzione della loro finalizzazione «cultuale». Nei libri sapienziali la purezza è considerata essenziale per un’autentica relazione con gli uomini e con Dio. Sempre nell’Antico Testamento si caratterizza come rettitudine interiore, capace di dare spessore e dignità ai rapporti sociali. In Mt 5,8 i puri di cuore non sono da intendersi come persone ascetiche che difendono il loro stato di purezza astenendosi nell’avere contatti con gli altri individui o con le realtà terrene. La loro purezza riguarda la chiarezza nel comportamento esteriore, ma soprattutto quella relativa al cuore e ai suoi atteggiamenti interni. Quest’ultimo significato supera di gran lunga il significato che oggi viene dato a tale termine. Nel vangelo di Matteo un uomo è giusto quando ha un cuore chiaro, nitido, trasparente, indiviso e che cerca Dio con tutto il suo cuore, che ama Dio con tutto il suo cuore. Nella Bibbia il cuore dell’individuo è la sede dei sentimenti, dell’intelligenza e della volontà dell’uomo. Pertanto il cuore funge da sintesi dell’identità dell’uomo. Un cuore puro indica una persona integrata, unificata interiormente e quindi capace di amare Dio e i fratelli con gesti di carità effettiva. Il cuore, quindi, secondo Mt 5,8 è quel centro dell’essere umano verso il quale Gesù rivolge la sua attenzione. La parola di Gesù contenuta in vari testi evangelici (Mt 15,8.18.19; Mc 3,5; 6,52; 7,6.21; 8,17; Lc 16,15; Gv 13,2; 14,1.27; 1 Gv 3,19-21) sembra presentare le seguenti costanti riguardo alla rettitudine del cuore: è disponibilità, è libertà a conoscere Dio. È nel cuore dell’uomo che Dio si rivela. Il livello umano o disumano del comportamento delle persone dipende dalla loro interiorità (cf per esempio, Mc 7,1-23), dalle scelte buone o cattive, costruttive o distruttive, decise nel cuore. Dall’interiorità dell’uomo proviene la rettitudine di comportamento verso Dio e il prossimo. La felicità dipende da questa corrispondenza tra l’interno del proprio cuore e l’agire esterno. Una persona dal cuore autentico e trasparente è capace di una relazione più diretta e immediata con Dio. La beatitudine di Matteo sulla purezza di cuore si rivolge al discepolo per ricordagli che un’interiorità integrata è aperta alla relazione con Dio e ha come meta futura il «vedere Dio». Cosa vuol dire questa espressione «vedere Dio»? In alcuni testi della Bibbia la possibilità di «vedere Dio» su questa terra è preclusa all’uomo (Es 33,20; Gv 1,18; 1 Tm 6,16), in altri, invece, si afferma un esito possibilista (Sal 11,7; Gb 19,26; 1 Gv 3,2; Ap 22,4). In Matteo la possibilità della visione beatifica di Dio rimane un’esperienza aperta sulla vita dell’uomo. Di fatto la purezza di cuore orienta la relazione con Dio a raggiungere la sua pienezza. Un esegeta impegnato nella lettura pastorale della Bibbia scrive così: «Il puro di cuore sa dove cercare la volontà di Dio e ne coglie il centro. Chi non è puro di cuore, invece, si perde nelle minuzie e smarrisce il centro… Il puro di cuore è l’uomo che lascia trasparire la sua verità, tutto il contrario dell’uomo doppio, che fuori è in un modo e dentro è in un altro, come un sepolcro imbiancato (23,27-28)… La purità rituale mette in gioco le pratiche, la purezza del cuore l’intera persona» (B. Maggioni, Le molte forme del primato di Dio. Una lettura delle beatitudini, in «Credere Oggi» XI [3/1991], 24). E infine un’ultima significativa interpretazione: «Il cuore puro è un occhio trasparente che vede Dio. E lo vede in tutte le cose, perché lo ha dentro e lo proietta su tutto. La purezza di cuore si ottiene con la retta intenzione: chi in tutto cerca solo Dio, trova lui, che è tutto in tutti (1 Cor 15,28)» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo 1,63).